Neuro-miti nello sport: cosa dicono le neuroscienze

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Negli ultimi decenni c’è stata una crescita esponenziale delle neuroscienze. Abbiamo compreso come funziona la nostra cognizione e di come apprendiamo. Tuttavia, al livello sportivo spesso si è inconsapevoli di questi avanzamenti scientifici.

Alle volte, si sono sviluppati alcuni miti e false credenze con la presunzione che fossero brain-based. In questo articolo di Michele Di Ponzio l’obiettivo sarà quello di sfatare alcuni dei neuro-miti in ambito sportivo ascoltando cosa le neuroscienze ci dicono.

 

Neuro-miti e neuroscienze 

 

La nostra comprensione della biochimica del cervello insieme alla ricerca psicologica hanno permesso di svelare alcuni processi relativi ad alcune nostre facoltà, come l’attenzione, la memoria, l’apprendimento. Ragionevolmente, questi progressi hanno suscitato un grande interesse per la possibilità di migliorare campi applicativi come l’ambito sportivo. Di conseguenza, si è assistito a una crescita accelerata degli studi condotti da neuroscienziati, psicologi cognitivi e ricercatori in campi associati, che hanno cercato di applicare le conoscenze sviluppate sul cervello.

Allo stesso tempo, è emersa una nuova industria che imita molti degli aspetti superficiali delle vere neuroscienze, come l’uso frequente dei prefissi “neuro” e “psico”. Spesso ciò non aderisce ai principi fondamentali della pratica scientifica. Ciò nonostante, si è assistito a un’infiltrazione di queste idee e pratiche pseudoscientifiche nel campo del coaching sportivo.

È dunque necessario sfatare alcuni di questi miti. Laddove questi vengano spacciati come verità scientifiche, sarà evidenziato l’insostenibilità della metodologia con cui si presume siano stati verificati. Soprattutto, sarà poi esplicitato cosa hanno in realtà mostrato, con rigore metodologico, le neuroscienze.

 

Idee pseudoscientifiche e neuro-miti nello sport

 

L’intrusione di affermazioni e pratiche dubbie può limitare l’efficacia della pratica applicata e aumentare il rischio di danni per coloro che le sperimentano. Questo rischio è particolarmente evidente quando le affermazioni sono formulate nel linguaggio delle neuroscienze.

Le spiegazioni dei fenomeni psicologici sembrano generare un maggiore interesse da parte del pubblico quando contengono informazioni neuroscientifiche. Anche informazioni neuroscientifiche irrilevanti in una spiegazione di un fenomeno psicologico possono interferire con la capacità delle persone di considerare criticamente la logica sottostante a questa spiegazione.

In uno studio, i soggetti di due gruppi di non esperti hanno giudicato che le spiegazioni con informazioni neuroscientifiche logicamente irrilevanti erano più soddisfacenti di quelle senza. Le informazioni sulle neuroscienze hanno avuto un effetto particolarmente evidente sui giudizi dei non esperti riguardo alle cattive spiegazioni, mascherando problemi altrimenti salienti in queste spiegazioni. Questo spiega come una linguaggio pseudo-neuroscientifico possa essere utilizzato ai fini di vendere un concetto razionalmente non vendibile.

 

Il discorso popolare

 

Queste idee vanno dai neuro-miti che sono entrati nel discorso popolare, come l’idea che le persone usino solo il 10% del loro cervello e che esistano persone che utilizzano maggiormente l’emisfero destro e altre quello sinistro.

Inoltre, i cosiddetti programmi educativi “basati sul cervello”, basati su ricerche neuroscientifiche errate e su teorie screditate dell’apprendimento e del funzionamento cognitivo, sono spesso presentati come i risultati di ricerche neuroscientifiche all’avanguardia.

Le pressioni per il successo agonistico fanno sì che molti allenatori e le loro organizzazioni siano alla continua ricerca di idee nuove e vantaggiose per migliorare le prestazioni dei loro giocatori, aumentando potenzialmente la loro vulnerabilità alle idee pseudoscientifiche.

 

Esempi di miti nelle neuroscienze

 

Alcuni esempi di neuro-miti sono stati già oggetto di alcuni articoli precedenti. Abbiamo visto come la semplice ripetizione multipla di un gesto non sia unicamente necessaria ai fini dell’apprendimento motorio.

Tuttavia, esistono diversi altri casi in cui false idee sono diffuse tra i professionisti del settore. Vediamone alcuni più approfonditamente.

 

Neuro-mito 1: Ognuno ha uno stile percettivo di apprendimento prediletto

 

Il neuro-mito di gran lunga più studiato è quello degli stili di apprendimento. Il termine “stili di apprendimento” si riferisce al concetto che gli individui differiscono per quanto riguarda la modalità di istruzione o di studio più efficace per loro. Secondo questo modello alcune persone imparano meglio osservando. Altre ascoltando e altre ancora muovendosi. Una revisione di studi condotti nel Regno Unito, nei Paesi Bassi, in Turchia, in Grecia e in Cina ha rilevato che oltre il 90% degli insegnanti concorda sul fatto che gli studenti imparano meglio quando ricevono informazioni adeguate ai loro stili di apprendimento preferiti.

Questa idea ha acquisito diverse giustificazioni che sostengono di avere una base neuroscientifica. L’assunto implicito sembra essere che, poiché regioni diverse della corteccia hanno ruoli cruciali nell’elaborazione visiva, uditiva e sensoriale, gli studenti dovrebbero ricevere le informazioni in forma visiva, uditiva o cinestetica a seconda della parte del cervello che funziona meglio. L’interconnessione cerebrale rende tale ipotesi non valida e le revisioni della letteratura educativa e gli studi di laboratorio controllati non supportano questo approccio all’insegnamento.

Tuttavia, è vero che ci possono essere delle preferenze e, cosa forse più importante, che presentare le informazioni in più modalità sensoriali può favorire l’apprendimento.

 

Neuro-mito 2: La PNL è scientificamente basata sulle neuroscienze

 

La Programmazione Neuro-Linguistica (PNL) è un popolare approccio “basato sul cervello”. Come suggerisce il nome, la PNL cerca di allinearsi alle neuroscienze. Le sue affermazioni secondo cui i movimenti oculari permettono di capire i processi di pensiero, che certi modelli di linguaggio possono influenzare il comportamento altrui e che le abilità degli esperti possono essere apprese con relativa facilità identificando e codificando i loro processi di pensiero inconsci, sono confluite nella psicologia dello sport, nella formazione degli insegnanti, nello sviluppo professionale, nell’identificazione dei talenti e in altri settori.

Lo status scientifico della PNL è controverso e ciò è in gran parte dovuto a una disgiunzione tra le affermazioni spesso ambiziose dei suoi sostenitori e la relativa mancanza di ricerche serie a sostegno di tali affermazioni. Carey et al. (2010) hanno pubblicato quella che gli autori definiscono una “revisione sistematica” che sostiene fortemente le affermazioni sulla PNL.

Tuttavia, gli autori non hanno rispettato nemmeno i protocolli più elementari per queste revisioni. Tra queste, l’esplicitazione dei criteri di inclusione/esclusione e delle stringhe di ricerca, l’uso di più database e la validazione indipendente. Inoltre, sono stati inclusi articoli e review non sottoposti a revisione, ma con pochi riferimenti alla letteratura scientifica critica.

 

Neuro-mito 3: “Un atleta deve specializzarsi nello sport il più presto possibile o non avrà mai successo”

 

Questo mito comune non potrebbe essere più lontano dall’evidenza neuroscientifica. Soprattutto per quanto riguarda gli sport giovanili, questo mito può danneggiare gravemente la mentalità e l’amore per lo sport dei giovani atleti. Infatti, ignora molte componenti dello sviluppo delle capacità atletiche dell’atleta.

Nessuno studio ha concluso che una specializzazione precoce comporti una maggiore possibilità di successo a lungo termine e ad alto livello. Al contrario, la possibilità di praticare più sport permette di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze motorie. In tal modo, è possibile una maggiore capacità di adattamento. Inoltre, in età infantile e puberale il cervello ha un grado di plasticità molto elevato. Ciò infatti favorisce l’apprendimento e un alto livello di randomicità.  Al contrario, una precoce specializzazione risulta nella cristalizzazione di alcune abilità.

Alcuni esempi di atleti professionisti argomentano in favore delle evidenze scientifiche a tal proposito. Basti pensare al giovane tennista italiano Yannick Sinner. Egli infatti, ha praticato fino ad età adolescenziale non solo il tennis ma anche lo sci ad alti livelli.

 

Neuro-mito 4: Superati i primi anni di vita, non è più possibile sviluppare alcune abilità

 

Questo neuro-mito si basa sull’idea che esista un periodo critico durante il quale si verifica la maggior parte dello sviluppo cerebrale e dopo il quale la traiettoria dello sviluppo umano è principalmente fissata. I semi fattuali di questa idea includono il corretto riconoscimento dell’esistenza di periodi critici e sensibili nello sviluppo di particolari sistemi cerebrali.

Tuttavia, ciò implica che all’interno di periodi sensibili l’apprendimento di quella abilità è particolarmente facile. Al di fuori, invece, di questi periodi saranno necessari maggiori sforzi, ma nulla è proibito. Il cervello è plastico e questa capacità viene mantenuta in tutto l’arco della vita, fino alla vecchiaia.

 

Neuro-mito 5: È possibile prevedere con precisione, già in giovane età, chi diventerà un atleta d’élite

 

I media perpetuano questo mito, poiché alcuni prodigi ricevono l’attenzione dei media e di grandi sponsorizzazioni commerciali. Per questo motivo, molti genitori e allenatori credono che il talento possa essere identificato e sviluppato in età molto precoce.

La ricerca in psicologia e in neuroscienze dello sport ha costantemente dimostrato che l’identificazione accurata del talento atletico è complessa. Gli atleti che ottengono un successo precoce non sono necessariamente quelli che diventano i migliori atleti. Infatti, nel percorso formativo che porta i bambini a diventare giovani atleti, molti stage di sviluppo cerebrale dovranno essere superati.

Tutti questi definiranno infine le abilità sportive. Precocemente potrebbe accadere che un bambino performi meglio di altri solo perché ha già sviluppato alcune capacità che il livello di maturazione del cervello di altri piccoli atleti non ha raggiunto.

 

 

Conclusioni

 

I neuro-miti sono idee sbagliate sul cervello che fioriscono quando le condizioni culturali le proteggono dal controllo. La loro forma è influenzata da una serie di pregiudizi sul modo in cui pensiamo al cervello. La proliferazione di credenze pseudoscientifiche è motivo di preoccupazione, poiché molte delle idee discusse in questo articolo riguardano direttamente l’apprendimento dei coach e dei loro allievi.

Le convinzioni errate sull’apprendimento e sul cervello potrebbero quindi avere un effetto dannoso sui risultati sportivi. Ad esempio, l’insegnamento in base agli stili di apprendimento identificati potrebbe non solo essere teoricamente sconsigliato, ma anche deleterio per l’apprendimento, perché gli allievi sono guidati lontano da modalità non preferite che probabilmente facilitano un maggiore e positivo carico cognitivo.

In altri casi, nozioni pseudoscientifiche vengono proposte da figure non realmente preparate e che anzi abusano di professioni quali la psicologia dello sport e le neuroscienze dello sport, non avendone in realtà diritto. In tal senso, è necessario assicurarsi che i professionisti ai quali ci si affida siano tali e che, ad esempio, i presunti mental coach siano in realtà psicologi dello sport.

 

L’importanza della collaborazione

 

Una maggiore collaborazione interdisciplinare tra le neuroscienze e le scienze motorie può aiutare a identificare e ad affrontare i malintesi che si presentano. In tutto il mondo si stanno formando centri di ricerca che combinano le neuroscienze e le scienze motorie.

Sebbene i singoli approcci di questi centri varino, vi è una comune consapevolezza della necessità che neuroscienziati e professionisti dell’ambito sportivo lavorino insieme nel tentativo di creare un ponte tra queste due discipline.

In un futuro che è già presente, questa collaborazione sarà essenziale se vogliamo che la performance sportiva sia arricchita piuttosto che fuorviata dalle neuroscienze.

 

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